Redazionale: pubblichiamo articolo di Zela Satti - Kulturiam
L’Operazione Carro di Gedeone va oltre il fanatismo nazionalista: riflette un progetto geopolitico complesso tra Israele, USA e Golfo. Puntando alla creazione di una ZES (Zona economica speciale) a Gaza, la strategia collega difesa, economia e alleanze, mentre Netanyahu consolida il suo potere.
Operazione Carro di Gedeone
L’operazione “Carro di Gedeone“, lanciata dal governo israeliano in cui Netanyahu parla apertamente di occupazione permanente di Gaza ed espulsione dei palestinesi, ha sollevato numerose polemiche e interrogativi anche sul piano politico e geopolitico.
Se da un lato continua ad essere presentata da Tel Aviv come una risposta definitiva alla minaccia rappresentata da Hamas, dall’altro emerge come parte di un progetto più ampio che coinvolge Israele, gli Stati Uniti e le monarchie del Golfo.
La narrativa biblica e il nazionalismo
Il nome stesso dell’operazione richiama l’Antico Testamento, suggerendo un rimando simbolico alla figura biblica di Gedeone, un condottiero e giudice di Israele che liberò il suo popolo dai Madianiti. Tuttavia, questa narrazione religiosa sembra poco pertinente rispetto alla situazione attuale, e alcuni osservatori ritengono che l’uso di riferimenti biblici serva più a galvanizzare l’opinione pubblica israeliana che a offrire una reale giustificazione strategica.
In effetti, la storia di Gedeone risale al XII secolo a.C., ma venne redatta solo nel VI secolo a.C., riflettendo già allora una costruzione narrativa piuttosto che un dato storico.
In questo contesto, il fanatismo nazionalista emerge come un elemento cardine. Netanyahu ha costruito la sua base politica intorno a una visione ideologica che vede Israele come un baluardo di civiltà contro le barbarie, una narrativa che risuona fortemente nell’Occidente. Tuttavia, al di là dell’aspetto ideologico, l’operazione sembra rispondere a logiche di potere più complesse.
Strategie geopolitiche e progetti economici
Dietro l’operazione “Carro di Gedeone” si nasconde un progetto geopolitico ed economico ambizioso, che va oltre la contingenza del conflitto con Hamas. Già prima del 7 ottobre, Netanyahu aveva presentato all’ONU un piano che prevedeva una riorganizzazione dell’area di Gaza come Zona Economica Speciale (ZES), una sorta di enclave commerciale che potrebbe attrarre investimenti internazionali.
Tale visione è in linea con l’idea della “Via del Cotone”, un corridoio economico che collega l’Europa, la penisola arabica e l’India, in opposizione alla Belt and Road Initiative cinese.
Questa strategia si inserisce nel quadro degli Accordi di Abramo, voluti da Trump e proseguiti da Biden, che mirano a consolidare un’alleanza tra Israele e le monarchie del Golfo. La prospettiva è quella di stabilizzare il Medio Oriente attraverso relazioni economiche forti, capaci di creare un fronte comune contro l’influenza iraniana. Gaza, in questa logica, potrebbe trasformarsi in un polo economico sotto controllo israeliano, o con una gestione condivisa tra Israele e Stati Uniti.
L’ombra della politica interna israeliana
Oltre alla dimensione internazionale, l’operazione ha anche un impatto sulla politica interna di Israele. Netanyahu, coinvolto in diversi scandali giudiziari, non ultimo lo scontro finito in tribunale con l’ex direttore dello Shin Bet, potrebbe sfruttare il contesto di guerra per consolidare il proprio potere e posticipare i procedimenti legali.
Inoltre, il sostegno dei gruppi più radicali e dei coloni è garantito da un atteggiamento aggressivo verso i palestinesi, considerati una minaccia alla sicurezza nazionale.
L’operazione si configura quindi come una mossa politica volta a rafforzare il governo di destra, sfruttando il consenso popolare alimentato dalla paura e dalla retorica nazionalista. Questo schema è simile a quello adottato da altri governi nazional-conservatori in Europa e nel mondo, dove la minaccia esterna viene costantemente enfatizzata per giustificare misure straordinarie.
Dunque l’operazione “Carro di Gedeone” rappresenta il punto di convergenza tra fanatismo ideologico, calcoli politici interni e ambizioni geopolitiche, in cui la retorica biblica appare come uno strumento di legittimazione di un progetto più complesso, che mira a consolidare il ruolo di Israele come potenza regionale e partner privilegiato degli Stati Uniti.

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