Pasquino, la voce del popolo
Le recenti dichiarazioni della Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in vista del Consiglio europeo, pongono l'attuazione del Patto sulla migrazione e l'asilo come priorità assoluta per il prossimo anno. L'enfasi sulla velocizzazione di aspetti mirati del Patto, inclusa la designazione di paesi di origine sicuri e l'istituzione di "hub di rimpatrio" in paesi terzi, solleva serie preoccupazioni riguardo all'approccio europeo alla gestione dei flussi migratori e in particolare sui diritti umani.
Se da un lato si riconosce la necessità di un sistema più efficiente, dall'altro non si può ignorare una critica fondamentale: inasprire le condizioni di accesso e concentrarsi sui rimpatri forzati rischia di non affrontare le radici profonde del fenomeno migratorio, creando anzi ulteriori problemi. Chi fugge da guerre, persecuzioni, carestie o disastri ambientali è spesso spinto da una disperazione tale da non essere facilmente scoraggiato da ostacoli burocratici o dalla minaccia di essere respinto. La storia insegna che erigere muri, siano essi fisici o normativi, raramente ha fermato chi è costretto a lasciare la propria terra per sopravvivere.
La proposta di istituire "hub di rimpatrio" in paesi terzi evoca scenari inquietanti. Il timore è che tali strutture possano trasformarsi in veri e propri campi di detenzione, replicando modelli già sperimentati con esiti disastrosi e inumani, come nel caso della Libia. Concentrare persone in condizioni di vulnerabilità in strutture simili a prigioni, lontano da ogni forma di controllo e tutela efficace, non solo è una porcheria disgustosa, ma si dimostra anche inefficace come deterrente. La sofferenza e la morte da cui queste persone cercano di allontanarsi sono spesso così estreme da rendere qualsiasi ulteriore privazione di libertà o dignità un male minore.
La questione dei rimpatri è particolarmente delicata e non può essere affrontata con una logica puramente securitaria e repressiva. La vita di chi intraprende viaggi disperati, spesso mettendo a rischio la propria incolumità e quella dei propri cari, merita un approccio umano e affrontandone le cause. Etichettare queste persone con una "spocchia razzista e menefreghista", come se fossero semplici numeri o minacce alla sicurezza, è un atteggiamento inaccettabile per una civiltà che si professa fondata sui diritti umani.
Il rafforzamento del rimpatrio forzato e le misure più severe per coloro che sono considerati un rischio per la sicurezza sollevano interrogativi sulla proporzionalità e sul rispetto dei diritti fondamentali. È necessario garantire che ogni decisione di rimpatrio sia presa nel pieno rispetto delle leggi internazionali e dei diritti individuali, evitando generalizzazioni e stigmatizzazioni.
L'annunciata digitalizzazione della gestione dei casi di rimpatrio e la revisione di Frontex, pur potendo rappresentare strumenti utili per una gestione più efficiente, non devono oscurare la necessità di un approccio globale e umano al fenomeno migratorio. Concentrarsi unicamente sulla deterrenza e sul rimpatrio rischia di perpetuare una visione miope e inefficace, ignorando le cause profonde delle migrazioni e le responsabilità di un'Europa che si proclama, a parole ma non nei fatti, paladina dei diritti umani e di democrazia. Invece di costruire fortezze inespugnabili, l'Unione Europea dovrebbe investire in politiche di cooperazione internazionale, sostegno ai paesi di origine e canali di migrazione sicuri e legali, dimostrando una vera leadership basata sull'umanità e sulla solidarietà.

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