Redazionale
Mentre l'attenzione globale è concentrata su conflitti e crisi economiche, un evento in Romania solleva un interrogativo cruciale sul futuro della democrazia nell'Unione Europea. Calin Georgescu, candidato anti-establishment, lontano anni luce dalle nostre posizioni politiche, ha vinto il primo turno delle elezioni presidenziali nel 2024, proponendo un programma in netto contrasto con l'agenda UE/NATO. La risposta delle istituzioni rumene, sotto la rigida pressione europea, è stata drastica: elezioni annullate per presunte "interferenze straniere" e, successivamente, esclusione di Georgescu dalle nuove elezioni del 2025 con l'accusa di essere un "fascista filorusso".
Questo episodio, pur riguardando un singolo stato membro, mette in luce una problematica più ampia che investe l'intera Unione Europea: si può parlare di salvaguardia dei valori democratici annullando la volontà popolare? È legittimo escludere un candidato, soprattutto se sostenuto da un ampio consenso, in nome della difesa (presunta) della democrazia stessa?
La Costituzione italiana, ad esempio, prevede il divieto di ricostituzione del partito fascista, dimostrando che anche in un sistema democratico esistono limiti. Tuttavia, la norma italiana è specifica e mirata a prevenire il ritorno di un regime totalitario con metodi antidemocratici. Nel caso rumeno, l'esclusione di Georgescu sembra basarsi più su una generica accusa di "fascismo" e "simpatie filorusse" , queste ultime legate al fatto che non vuole uno scontro diretto con la Russia, più che su azioni concrete contro i principi democratici. Le sue posizioni, che ribadiamo non ci appartengono, per quanto controverse e conservatrici, sono sempre state espresse pacificamente all'interno del dibattito democratico, e la sua carriera pregressa in istituzioni internazionali come l'ONU testimonia una complessità che va oltre facili etichette.
La motivazione ufficiale delle "interferenze straniere", veicolate tramite TikTok, appare fragile e pretestuosa. È paradossale che si invochi la minaccia di pochi "bot" sui social media per annullare un'elezione, ignorando l'influenza ben più pervasiva e strutturale dei grandi media e delle reti sociali occidentali, i cui algoritmi e finanziamenti orientano quotidianamente l'opinione pubblica su scala globale. Si percepisce una certa ipocrisia nel condannare presunte influenze esterne da "levante" mentre si ignorano quelle, ben più consolidate, provenienti da "ponente".
La vicenda rumena mette in discussione la narrazione di un Occidente paladino dei diritti umani e della democrazia. Se l'esclusione di un candidato popolare avviene in nome della difesa di questi valori, ma in realtà sembra mirare a preservare un certo ordine politico e ideologico imposto dalla UE, allora la democrazia si trasforma in una "democratura", svuotata di significato sostanziale e ridotta a mera facciata.
La domanda cruciale rimane: la democrazia occidentale è disposta a tollerare voci dissenzienti e alternative, anche se scomode o non allineate al pensiero unico dominante? O la sua "ideologia", come ogni sistema di potere, è pronta a piegare i principi stessi che proclama di difendere per preservare il proprio status quo? Il caso rumeno suggerisce una risposta inquietante: "dipende", e questo "dipende" rivela una fragilità profonda nell'edificio democratico europeo.

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