Il mainstream mediatico ci dipinge un mondo diviso in buoni e cattivi, dove la persecuzione è appannaggio esclusivo di regimi autocratici come Russia, Cina, Corea del Nord, Iran e Venezuela. Questi paesi, bollati come “nemici” dell’Occidente, diventano il capro espiatorio perfetto per distogliere l’attenzione da scomode verità: la persecuzione dei diritti umani è una realtà globale, che non risparmia nemmeno le democrazie occidentali (?), Stati Uniti inclusi.
La recente vicenda di Leonard Peltier è un esempio lampante di questa ipocrisia. Dopo quasi 50 anni di prigionia ingiusta, questo attivista nativo americano è stato rilasciato per scontare gli ultimi anni di vita agli arresti domiciliari. Non da uomo libero, nonostante si sappia dell'ingiustizia subita, ma ai domiciliari. Peltier, membro dell’American Indian Movement (AIM), un’organizzazione che lottava per i diritti e contro le brutalità subite dalle comunità native, fu condannato nel 1977 per l'omicidio di due agenti dell'FBI durante un processo farsa. Nonostante le evidenti manipolazioni processuali e l'assenza di prove concrete, Peltier divenne un simbolo di un sistema giudiziario americano che poteva essere spietato e ingiusto, specialmente nei confronti delle minoranze.
La storia di Peltier smaschera la narrazione semplicistica che confina la persecuzione oltre i confini occidentali ed è solo una delle migliaia di storie che non conosciamo. La sua liberazione, seppur tardiva e parziale, è un promemoria che la lotta per la giustizia e contro l'oppressione è universale e che nessun paese, nemmeno quelli che si ergono a paladini della democrazia, è immune da zone d'ombra e abusi di potere. Riconoscere la persecuzione ovunque essa avvenga, è il primo passo per costruire un mondo più giusto e veramente libero.